Per una legittimazione estetica della psicologia junghiana

 

 

La risposta al rozzo materialismo non sono i miracoli ma la bellezza.     

Gregory Bateson [1]

 

Scienza ed umanesimo

A partire dalla nascita della scienza moderna, nel XVI secolo, la cultura occidentale si è sdoppiata – caso unico nella storia dell’umanità – in due forme di sapere, due «culture», scientifica e ed umanistica, che utilizzano codici diversi – uno quantificato e l’altro no – per occuparsi, rispettivamente, del mondo della Natura e di quello dello Spirito.

I fondatori della scienza moderna avevano, infatti, deciso di fondare la nuova conoscenza sulle sole  qualità «primarie» dei corpi, misurabili e quindi ritenute oggettive – forma, dimensioni, numero, moto, peso – escludendo le qualità «secondarie» – colori, suoni, odori, sapori, sensazioni di caldo e di freddo – che consideravano soggettive perché non misurabili.

Riprendendo ed accentuando la posizione  dell’antico atomismo greco, ritenevano che il mondo naturale debba essere considerato un «grandissimo libro» – come lo definiva Galileo nel Saggiatore – scritto in un linguaggio matematico, che può, quindi, essere rappresentato nella maniera più adeguata basandosi sui soli dati quantitativi.

Negli anni successivi, fino ai nostri giorni, l’idea di un «mondo matematico» è stata accettata da quasi tutti gli scienziati e si è saldamente radicata  nel senso comune. [2]

Quest’idea, del resto, si accorda perfettamente con un altro dei capisaldi della scienza moderna, il cosiddetto «Rasoio di Occam», o ideale di semplificazione, così detto in onore del filosofo  e teologo del XIV secolo Guglielmo di Occam, che aveva affermato che «non bisogna moltiplicare gli enti oltre il necessario», per cui si debbono sempre preferire le ipotesi più semplici tra quelle possibili.

Per quattro secoli, quindi, la scienza si è caratterizzata come una spiegazione semplice della realtà, che aveva l’obiettivo di

braccare la complessità, di ridurla, di svelare, sotto la complessità delle apparenze, la semplicità – o   in sua mancanza la complicazione spiegabile – delle regole che reggono i fenomeni naturali ed        artificiali (…) Rendere il meraviglioso banale; cacciare il mistero dall’ Universo, come rivendicava    Marcelin Berthelot alla fine del XIX secolo, non era questa la splendida vocazione della Ricerca scientifica? [3]

Durante questo lungo periodo, e ancora fino ai nostri giorni, alla conoscenza matematizzata  della scienza è stato consegnato l’intero mondo della Natura, con il compito sia di rappresentarlo che di intervenire su di esso, mentre la conoscenza non matematizzata, oggi detta umanistica, è stata confinata nell’«esilio dorato» del mondo dello Spirito, della Cultura e della Società, secondo una ripartizione, basata sugli oggetti della conoscenza – mondo della Natura o mondo dello Spirito – che era stata decisa, fin dall’inizio, dagli stessi uomini di scienza: presentando lo statuto della Royal Society, nel 1663, Robert Hooke aveva già descritto gli obiettivi della scienza come «migliorare la conoscenza delle cose naturali e tutte le Arti utili, le Manifatture,  le pratiche Meccaniche, le Macchine e le Invenzioni per mezzo di Esperimenti», raccomandando agli scienziati di non «pasticciare con Teologia, Metafisica, Morale, Politica, Grammatica, Retorica o Logica».[4]

Dopo le rivoluzioni scientifiche del  Novecento – dapprima la meccanica quantistica e la relatività, poi la rivoluzione cibernetica – ed in particolare a partire dagli anni ’70 del secolo, il progetto della scienza classica di conciliare la matematizzazione della realtà con l’ideale occamista di semplificazione si è rivelato, però, sempre più illusorio, dal momento che la Natura descritta attraverso il filtro quantitativo è risultata sempre più complessa (cum-plexus, ovvero intrecciato, aggrovigliato in un tessuto inestricabile), quindi impossibile da rendere sem-plice (senza pieghe), a differenza delle macchine com-plicate (con pieghe) costruite dall’uomo, che possono sempre essere spiegate, dunque di nuovo rese sem-plici.

Si è riconosciuto che i sistemi complessi non possono essere spiegati attraverso la «lunga e tediosa strada» (Bateson) del riduzionismo, consistente nella scomposizione degli oggetti e nell’analisi delle singole parti separate, ma vanno compresi nella loro globalità, con un approccio di solito definito sintetico, o anche olistico, che i moderni studiosi della complessità hanno cercato di riprodurre inaugurando un nuovo modo di fare scienza, basato sullo studio del comportamento di  modelli dei sistemi reali riprodotti al computer e contando sull’enorme potenza di calcolo di questi ultimi per risolvere i problemi «non lineari» posti da questi sistemi.

La scienza della complessità  ha, quindi, superato o ridimensionato quasi tutti i principi fondamentali della scienza classica – il paradigma di disgiunzione-separazione, come l’ha definito E. Morin, con le varie dicotomie materia/energia, soggetto/oggetto, con la visione meccanica della natura e della vita, il principio di semplificazione, e via dicendo – ma non ha messo in discussione la matematizzazione, che rimane tuttora saldamente insediata al centro della conoscenza scientifica.

I progressi della nuova conoscenza sono, comunque, notevolissimi, rispetto al paradigma classico, anche sul piano filosofico. A quest’ultimo livello, in particolare, hanno stimolato la nascita di una epistemologia della complessità, che ha tra i suoi maggiori esponenti E. Morin ed I. Stengers e che, per la prima volta, mette in evidenza i limiti di ogni tipo di conoscenza, compresa quella scientifica, ammettendo che non esiste nessuna conoscenza che possa essere considerata vera in assoluto, che sia «specchio del mondo oggettivo», e che ogni conoscenza va considerata una costruzione utile per determinati scopi, ma non per altri. [5] Si è aperta, in tal modo, la strada alla possibilità di «trasgredire» la conoscenza scientifica a livello di quei «buchi neri» nei quali essa smette di funzionare, affiancandole forme di conoscenza meno capaci di «rispondere ai nostri bisogni strumentali e manipolatori», ma più adatte a soddisfare i nostri «bisogni di comprensione»:

Il pensiero complesso richiede non l’abbandono di questa logica, ma una combinazione dialogica tra     il suo utilizzo segmento per segmento e la sua trasgressione nei buchi neri in cui essa smette di   essere operativa. [6]

Quest’apertura è molto importante, perché apre la strada al superamento dell’attuale, sterile distribuzione delle aree di influenza delle due conoscenze in base all’oggetto, Natura o Spirito, considerati ontologicamente diversi, per considerarle, invece, come due codici diversi, che possono convergere su qualsiasi realtà.

Diversi studiosi, oggi, definiscono in questa maniera la questione delle «due culture». Rorty, ad esempio, chiama «epistemologia» il metodo di conoscenza delle scienze naturali, ed «ermeneutica» quello basato sulla comprensione del senso, e spiega che:

La linea che divide i campi rispettivi dell’epistemologia e dell’ermeneutica non ha a che fare con la   differenza tra «scienze della natura» e «scienze dell’uomo», o tra fatto e valore, o tra «conoscenza oggettiva» e qualcosa di più improvvisato e dubbio. E’ solo differenza di familiarità. Avremo un  atteggiamento epistemologico quando, conoscendo perfettamente quel che sta succedendo, sentiremo l’esigenza di codificarlo per ampliarlo, o irrobustirlo, o insegnarlo, oppure per «fondarlo». Saremo       ermeneutici quando, non comprendendo quel che succede, saremo tuttavia abbastanza onesti da ammetterlo, invece di dimostrarci in proposito chiassosamente «progressisti».[7]

Per Rorty, sia gli scienziati che i grandi romanzieri propongono delle ridescrizioni del mondo, che sono sistemi di immagini e metafore ed hanno un’importante valenza, anche estetica. [8]

Il passo ulteriore da fare, a questo punto, consiste nell’approfondire le caratteristiche delle due forme di conoscenza, per individuare quella modalità maggiormente in grado di soddisfare i nostri «bisogni di comprensione» che, come scrive E. Morin, dovrebbe essere affiancata alla conoscenza più «strumentale e manipolatoria» della scienza matematizzata.

Questo aspetto può essere chiarito grazie al contributo fondamentale di Gregory Bateson.

Gregory Bateson e l’estetica ecologica

Bateson aveva preso parte attiva al fermento culturale che sarebbe poi sfociato nella scienza della complessità, ed in particolare era stato tra i protagonisti, assieme alla moglie Margaret Mead, del celebre ciclo di conferenze Macy: dieci convegni interdisciplinari organizzati a New York tra il 1946 ed il 1953 da Norbert Wiener e dai suoi collaboratori per studiare i possibili sviluppi e le rivoluzionarie implicazioni della «scoperta» del meccanismo del feedback e della causalità circolare, che aveva svelato un’importante analogia tra l’organizzazione degli organismi viventi, dei sistemi sociali e delle macchine artificiali dirette ad uno scopo.

Tutti questi sistemi, naturali o artificiali, sono infatti in grado di autoregolarsi ed autoorganizzarsi grazie ad innumerevoli ed intricati circuiti di feedback positivi e negativi, che nei sistemi naturali formano quel «plexus» – «groviglio inestricabile » – dei sistemi com-plessi contro il quale si sono infranti gli strumenti riduzionisti della scienza classica.[9]

Bateson aveva, quindi, partecipato con entusiasmo alla nascita della cibernetica, ma non era affatto interessato alla prospettiva del controllo (cibernetica vuol dire «scienza del controllo») e non vedeva di buon occhio la possibilità di costruire nuovi dispositivi tecnologici, come avrebbe presto fatto il ramo «ingegneristico» dei cibernetici, guidato da J. Von Neumann.

Per lui, la nuova disciplina, che mostrava la natura circuitale ed integrata della realtà, doveva invece rappresentare un mezzo per correggere le follie della moderna società occidentale e costruire una visione del mondo fondata su una nuova forma di saggezza ecologica.

La definizione di questa nuova forma di saggezza ha occupato soprattutto l’ultimo decennio della sua vita, dal 1968 al 1980: per inciso, gli stessi anni nei quali la maggioranza degli scienziati – tra i quali molti di quelli che aveva conosciuto durante le conferenze Macy – stava mettendo a punto la nuova scienza della complessità.

Questa coincidenza temporale permette di considerare le indicazioni provenienti dalle sue intuizioni come una seconda strategia di comprensione della realtà, che prende le mosse dallo stesso scontento nei confronti della scienza classica e dallo stesso fermento culturale che si era coagulato intorno alle scoperte della cibernetica, ed è complementare alla «strategia della complessità» proposta dalla scienza matematizzata.

La strategia proposta da Bateson è estetica. Harries-Jones ha definito un’estetica ecologica questa parte del suo pensiero.[10] Il suo ragionamento è, in effetti, abbastanza semplice.

Per prima cosa, prende atto del fatto che l’intera realtà naturale è composta da strutture in grado di autoregolarsi ed autoorganizzarsi grazie all’esistenza di innumerevoli ed intricati sistemi e sottosistemi di causalità circolare o feedback, secondo la dinamica evidenziata dalla cibernetica.

Dal momento che «la parte non può in alcun caso controllare il tutto»,[11] per intervenire su queste strutture cibernetiche senza disturbare la loro omeostasi – ovvero per agire con «saggezza sistemica» – è, quindi, necessaria una conoscenza in grado di «sentire o riconoscere la realtà circuitale»,[12] una conoscenza abbastanza ampia da com-prendere «vaste porzioni» di questa realtà cibernetica (per sottolineare il senso letterale di «prendere insieme» dell’idea di Bateson, d’ora in avanti scriverò la parola com-prensione con il trattino).

Ma la coscienza umana, continua Bateson, non ha quest’«ampiezza» nella com-prensione. La coscienza che tende ad uno scopo – che Bateson definisce «finalità cosciente» – compie, invece, l’operazione diametralmente opposta: «estrae, dalla mente totale, sequenze che non hanno la struttura ad anello caratteristica della struttura sistemica globale», [13] ed interpreta questi «archi di circuito» come sequenze finite di causalità lineare, mentre sono soltanto piccole «porzioni» dei vastissimi anelli cibernetici della realtà globale: «Ciò che appare sopra la superficie in seguito alla resezione della coscienza, sono archi di circuito, e non i circuiti completi, o i più vasti circuiti completi di circuiti».[14]

Questa conoscenza, quindi, induce ad agire su «brevi porzioni» dei circuiti cibernetici della realtà che vengono interpretate come sequenze di causalità lineare, con espedienti che modificano alcuni elementi di questi sistemi cibernetici senza tener conto delle loro relazioni con il resto della struttura e che, quindi, anche se riescono a raggiungere l’obiettivo desiderato, rischiano di interferire con l’equilibrio complessivo del sistema, ovvero di aggravarlo:

La pura razionalità finalizzata, senza l’aiuto di fenomeni come l’arte, la religione, il sogno, e simili, è di necessità patogena e distruttrice di vita (…) la sua virulenza dipende dal fatto che la vita dipende da circuiti di contingenze interconnessi, mentre la coscienza può vedere solo quei brevi archi di tali circuiti sui quali il finalismo umano può intervenire.[15]

 

È questa, in sostanza, la dinamica alla radice della crisi ecologica, delle difficoltà della medicina scientifica nei confronti delle patologie croniche, ed in genere di ogni conoscenza che si proponga di intervenire sui «sintomi» di disfunzioni sistemiche senza tener conto dell’equilibrio generale del sistema, che in questa maniera si rischia di peggiorare ( ed è anche illimite delle psicologie che  mirano a risolvere nel più breve tempo possibile il «sintomo» senza tentare di com-prenderne il senso ed il ruolo all’interno del percorso esistenziale dell’individuo).

Ma Bateson, come dicevamo, non si ferma alla constatazione della mancanza di saggezza sistemica della finalità cosciente: cerca una soluzione. Si guarda attorno, e si chiede se gli esseri umani possiedono una modalità di conoscenza adeguata all’organizzazione cibernetica della realtà. La sua risposta è affermativa: questa conoscenza esiste ed è la conoscenza estetica, che «ricerca l’ampiezza, il tutto».[16]

Nell’arte, infatti, avviene un’integrazione tra le diverse parti della mente, «specialmente quei molteplici livelli di cui un estremo è detto “coscienza” e l’altro “inconscio”»,[17] che amplia  le capacità di com-prensione e permette di percepire «i circuiti completi, o i più vasti circuiti completi di circuito», e non soltanto  gli «archi» che risultano dalla «resezione della coscienza».[18]

In realtà, nei dieci e più anni durante i quali rielabora queste sue idee, Bateson declina in varie maniere l’idea di una maggiore ampiezza della com-prensione estetica, parlando di volta in volta di abduzione, di scorciatoie estetiche, di una ecologia delle idee legate all’estetica, e soprattutto,

con la sua definizione più famosa, la struttura che connette, un pattern che realizza collegamenti ovunque all’interno del mondo naturale, la cui sensibilità è di competenza della mente estetica:

per estetico intendo sensibile alla struttura che connette. [19]

Per Bateson, in altre parole, l’estetica è un «meta contesto», un livello di secondo ordine che permette di conoscere come un intero coerente ed unitario  quegli stessi circuiti di feedback che la scienza investiga attraverso il livello di primo ordine dei dati sperimentali.

Si può fare, però, un passo ulteriore sul sentiero che Bateson ci ha indicato, inserendo nel suo modello della limitazione della coscienza rispetto alla realtà cibernetica un elemento che egli, pur avendolo ampiamente notato, non ha incluso all’interno di questa dinamica: la sistematica matematizzazione scientifica del mondo naturale, ovvero «l’assunto antiestetico  (…) che tutti i fenomeni (compresi quelli mentali) possono e devono essere spiegati in termini quantitativi». [20]

L’esclusione delle qualità secondarie dal discorso conoscitivo ha, infatti rappresentato un brusco salto rispetto al millenario percorso evolutivo della nostra specie: ha esasperato la «fisiologica» limitazione della coscienza descritta da Bateson, rendendo frammentati, oltre che limitati, i «brevi archi di circuito» che essa è in grado di percepire.

Riprendendo alcune osservazioni di Jung,[21] E. Whitmont sottolinea che l’associazione delle qualità sensibili degli oggetti naturali con altre loro caratteristiche – ad esempio, la crescita rigogliosa con il colore verde, la vita affettiva con il colore rosso, e via dicendo – non dipende dall’attività simbolizzante dell’uomo, ma è stabilita dalla natura stessa: è la stessa natura a «simbolizzare», associando determinate qualità sensibili a ben precise caratteristiche dei suoi «oggetti», in una «totalità creativa» che può essere adeguatamente compresa soltanto se resta  integra.

Ad esempio, spiega Whitmont, la crescita delle piante è caratterizzata dal colore verde: quindi diciamo che il verde è il simbolo della crescita: ma l’associazione verde-crescita non è arbitraria, non esiste soltanto nella nostra mente, è decisa dalla natura stessa:

Il verde è il simbolo della crescita, perché la crescita, così come la si ritrova nelle piante nella sua          forma più pura, è invariabilmente caratterizzata dal colore verde (…). Ma non siamo solo noi ad        associare il verde alla crescita: in realtà esso è il colore associato dalla natura alla crescita, nelle   piante in cui la crescita appare nella sua forma più pura e meno ostacolata. Laddove il verde sia        sostituito da un altro colore, significa che c’è stato un arresto nella crescita, come testimoniano le            alterazioni delle piante nel bocciolo multicolore (raramente verde), o nell’azione inversa alla             crescita, l’appassimento. Quando, nell’evoluzione delle piante, la ricca potenza della crescita viene         limitata dalla comparsa di una vita dell’anima, il verde delle piante è sostituito dal rosso dell’anima,     il colore dell’emozione.[22]

Separando gli oggetti dalle loro qualità sensibili, invece, la matematizzazione smembra questa totalità creativa, lacera ciò che la natura ci presenta come un «tutto», e quindi riduce drasticamente le capacità di com-prensione della conoscenza quantificata.

La dinamica è simile, sia nei casi di completa esclusione delle qualità secondarie, come nella fisica, sia nelle scienze naturali, a livello delle quali, come spiega Whitehead, esse entrano nella descrizione dei fenomeni, ma «non entrano nella scienza»: [23] viene considerata solo la loro diversità dalle altre esperienze della stessa classe (il rosso dal verde, ecc.), e viene così compromessa la possibilità di com-prendere il simbolismo attraverso il quale la totalità creativa della natura si manifesta.

Questa dinamica ha fatto sì che, nella modernità, l’antico limite di com-prensione della razionalità umana, descritto da Bateson, si trasformasse in un vero e proprio gap di com-prensione, i cui effetti si sono ripercossi su entrambi i compiti che affidiamo alla conoscenza matematizzata: rappresentare la realtà naturale ed intervenire sulle sue ecologie.

Sul primo versante, i suoi effetti si sono manifestati come perdita di senso e bellezza della realtà rappresentata dalla scienza, che M. Weber ha descritto in maniera molto efficace come un «disincantamento del mondo»;

sul secondo versante,  la stessa dinamica è alla radice delle difficoltà che incontra la conoscenza matematizzata ad amministrare le ecologie «macro e micro cosmiche», dunque in ecologia, medicina e psicologia.

La conoscenza quantificata, in sostanza, non può seguire la strategia di com-prensione estetica proposta da Bateson, che può essere portata avanti soltanto da una conoscenza che conservi la percezione il più possibile integra ed ampia dei circuiti cibernetici della realtà, e dunque includa gli aspetti sensibili del reale, come quella umanistica.

La conoscenza tecnico-scientifica può raggiungere una com-prensione in grado di garantire la stessa abilità della conoscenza umanistica nell’amministrazione degli equilibri sistemici (e dunque ovunque si tenda ad una cura, come in medicina e psicologia) soltanto aumentando drasticamente la complessità della struttura conoscitiva, al punto da renderne molto più difficile la fruizione, nonostante l’aiuto fondamentale della potenza di calcolo dei computers.

L’intuizione di Bateson di una maggiore ampiezza della com-prensione estetica della realtà cibernetica va, ovviamente, verificata, ed a quest’operazione ho dedicato una parte del libro Ripensare la bellezza,[24] attingendo alle riflessioni di filosofi come Kant, Burke, Hutcheson, agli studi sulla creatività scientifica di Arieti, Poincaré, Hadamard, alle osservazioni di neurofisiologi come Damasio, agli studi sulla psicologia del rischio di P. Slovic e dei suoi collaboratori.

Dando per scontato che questa verifica sia riuscita, è importante capire che prospettiva può avere anche per la psicologia junghiana.

Com-prensione estetica e psicologia

Si è detto, dunque, che il cammino aperto da Bateson permette di individuare un’importante relazione tra la bellezza di una determinata conoscenza e la com-prensione della realtà cibernetica, relazione che è fondamentale per conservare o ristabilire gli equilibri di un sistema , ovvero curarlo.

Queste riflessioni permettono di individuare nell’estetica un modo di orientarsi tra i due «incubi insensati» del materialismo quantitativo da un lato e del soprannaturalismo romantico dall’altro, come li definisce Bateson;[25] un orientamento del quale, oggi, soprattutto  la psicologia junghiana potrebbe giovarsi.

L’incredibile ricchezza e profondità del pensiero junghiano la rende infatti, senza dubbio, una delle psicologie potenzialmente più com-prensive. Ma è anche vero che, in alcuni casi, questa enorme potenzialità  è degenerata in un pensiero misticheggiante e magico, che ne ha compromesso l’attendibilità.

Come ben sappiamo, l’opposizione a questa degenerazione è spesso costata la rinuncia a cogliere aspetti importanti del pensiero di Jung, che sono stati invece accolti dai suoi allievi più «misticheggianti»: ad esempio, i concetti di archetipo, inconscio collettivo, sincronicità, e via dicendo.

Il cammino iniziato da Bateson potrebbe, quindi, rappresentare una valida alternativa per fondare sulla maggiore com-prensione della conoscenza estetica un processo di recupero su basi razionali, ma non materialistiche, di quegli aspetti del pensiero di Jung finora escluso dai suoi esegeti indisponibili a scivolare  su un terreno eccessivamente irrazionale.

Ma anche, in generale, una maniera per difendere la legittimità di concetti come simbolo , individuazione, , prospettivismo, la visione non materialistica della vita, dell’uomo, del destino: in sostanza, di tutti gli aspetti che caratterizzano la maggiore com-prensione della prospettiva junghiana rispetto ad altre psicologie, ma non possono essere verificati e dimostrati con gli strumenti materialistico-quantitativi della psicologia cognitiva e delle neuroscienze.

 

NOTE

 

[1] Bateson, G., Mente e Natura (1979), tr. it.  Adelphi, Milano 1984, pag. 277.

[2] Cfr.: Barrow J. D., Perché il mondo è matematico?  Laterza, Roma-Bari 1992 e 2006.

[3] Le Moigne, J. L., Progettazione della complessità e complessità della progettazione, in La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Feltrinelli, Milano 1985, 1995 (nona ed.), p.85.

[4] Citato da I. Prigogine in: Prefazione a E. Tiezzi, Fermare il tempo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.

[5] E. Morin I miei demoni (1994), tr. it. Meltemi editore, Roma 1999, p. 226.

[6] E. Morin, La sfida della complessità/La défi de la complexité, cit., p. 60-61.

[7] R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, (1979), tr. it. Bompiani, RCS libri, Milano 2004, p. 643.

[8] R. Rorty, Contingency, irony, and solidarity (1989), tr. it: La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 2001.

[9] Il feedback o controreazione è costituito da un anello chiuso di causalità nel quale i dati in uscita dal sistema – ad esempio la temperatura di una stanza rilevata da un termostato – vengono reintrodotti al suo ingresso – la caldaia – e servono da base per regolarne il funzionamento: quando la temperatura sale oltre un certo limite la caldaia viene spenta, quindi la temperatura scende e la caldaia viene accesa di nuovo, e così via. In questi apparati l’informazione circola continuamente nel sistema, e non è possibile individuare una causa e un effetto ben definiti, perché ogni elemento del circuito di feedback è, al tempo stesso, causa ed effetto degli altri elementi. Nel caso della caldaia con termostato il feedback è negativo, perché i dati in uscita dal sistema agiscono in senso opposto ai risultati precedenti, e questo ha un effetto stabilizzante sul sistema, mantenendo la temperatura all’interno di un range stabilito e, soprattutto, impedendo che la caldaia esploda. Nel feedback positivo, invece, i dati in uscita accelerano una trasformazione nello stesso senso di quella iniziale, come accade nella reazione a catena, nella crescita di un bambino, nell’inflazione, nella corsa agli armamenti e via dicendo: i feedback positivi sono alla base dello sviluppo del sistema, ma se non sono bilanciati da almeno un feedback negativo ne causano, prima poi, anche la distruzione.

[10] P. Harries-Jones, Understand Ecological Aesthetics: The challenge of Bateson, in Cybernetic And Human Knowing, Vol.12, nn. 1-2, 2005, pp. 61-74.

[11] G. Bateson, Finalità cosciente e natura, in Verso un’ecologia della Mente cit., p. 470

[12] G. Bateson, Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva,  in Verso un’ecologia della mente, p. 182.

[13] G. Bateson, Finalità cosciente e natura, in Verso un’ecologia della Mente, p. 449.

[14] G. Bateson, Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva, in Verso un’ecologia della mente , p. 180.

[15] Ivi, pp. 180-181. Corsivo mio.

[16] G. Bateson, In cerca del Sacro. Il seminario di Dartington, in Una sacra unità, p. 444.

[17] G. Bateson, Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva, in Verso un’ecologia della mente, p.161.

[18] G. Bateson, Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva, in Verso un’ecologia della mente, p.180.

[19] G. Bateson, Mente e Natura (1979), tr.it. Adelphi, Milano 1984, p. 22.

[20] G. Bateson, Mente e Natura (1979), tr.it. Adelphi, Milano 1984, p. 96.

[21] C. G. Jung, Psicologia ed alchimia, ed. it. Boringhieri, Torino 1981.

[22] E. C. Whitmont, Omeopatia e psicanalisi. La medicina omeopatica alla luce della psicologia junghiana (1980), tr, it. Red Edizioni, Como 1987, p. 43.

[23] A.N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno

[24] A. Cichetti, Ripensare la bellezza, Mimesis, Milano 2019.

[25] G. Bateson e M.C. Bateson, Dove gli angeli esitano (1987), tr. it. Adelphi, Milano 1989, p. 103.

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